Richard Yates #1: Undici Solitudini (1962)
Se volete entrare in sintonia con Richard Yates e con il suo modo di fare e di vivere la letteratura dovete necessariamente leggere le ultime nove righe che chiudono Costruttori ovvero il suo racconto più celebre, contenuto nella raccolta Undici Solitudini:
E dove sono le finestre? Da dove entra la luce?
Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho la risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre. Forse la luce deve cercare di penetrare come può, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Se è così, sta’ sicuro che il primo a esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.
Per Richard Yates infatti scrivere un racconto è un po’ come costruire una casa e un racconto – cosi come una casa vera e propria – per dimostrarsi solida e resistente, deve possedere buone fondamenta e pareti compatte e poco importa di quello che vuole poi realmente suggerirci la narrazione, poiché il senso va sempre e comunque ricercato altrove, ovvero fra le righe.
Richard Yates aveva una particolare ossessione e predilezione per la luce, pur non essendone mai alla costante e morbosa ricerca poiché ogni qualvolta Richard Yates si accingeva a scrivere, era ben convinto del fatto che nessuna storia nasce con l’ambizione di raggiungere il lieto fine, pur essendo in possesso di tutte le qualità e di tutti gli strumenti per raggiungerlo e per inscenarlo ma il fondo questo non è stato un po’anche il mood della sua intera esistenza?
Ma la perfezione se è facile da ammirare, è difficile da amare…”
Richard Yates non amava il lieto fine perché aveva una particolare predilezione per i perdenti e per i reietti – sentendosi spesso uno di loro e quindi particolarmente inadeguato nei confronti della vita stessa – e perciò amava raccontare la realtà seppur orrida e spietata e ha finito per infondere questa peculiarità anche ai suoi personaggi e alle loro vicende, tanto nei racconti quanto nei romanzi.
Undici solitudini raccoglie i racconti scritti all’età di venti e trent’anni e potrebbe essere in qualche modo considerato il libro d’esordio di Richard Yates, seppur pubblicato nel 1962 – dopo l’enorme successo riscosso dal romanzo Revolutonary Road – e le cui idee di base dei vari racconti sono ottime e spesso condite da molti elementi autobiografici, personalmente ho notato una scrittura ancora un tantino densa, complessa e priva di uno stile vero e proprio ma al contrario condizionata molto dall’ammirazione nutrita da Richard Yates nei confronti di scrittori del calibro di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald nonché un timido tentativo di emulazione.
Nei racconti che compongono Undici Solitudini c’è infatti la guerra, i sanatori, l’Europa ma soprattutto c’è l’America e quel desiderio assoluto di fare a pezzi il conformismo e le convenzioni dell’epoca partendo dalla famiglia sino a giungere all’intera società ma prima di ogni altra cosa ci sono le solitudini e le sue mille sfumature.
I protagonisti dei racconti che compongono Undici Solitudini sono persone comuni – spesso sole e vulnerabili – chiuse nelle loro convinzioni e nei loro drammi personali che dimostrano la totale incapacità di stare al mondo, la mancanza di affinità con tutto ciò che le circonda e una certa vena di crudeltà.
Non è un caso che nei confronti dei personaggi che popolano Undici Solitudini non si riesce infatti a provare pena o empatia – forse perché è lo stesso Richard Yates a trattarli male e a non provare pena per loro nel momento esatto in cui ne traccia il profilo e li presenta al lettore sotto la loro luce peggiore – nemmeno quando sembra che qualcosa stia finalmente per accadere e un sorta di redenzione sia ancora possibile.
Eppure in questi racconti – dai quali mi aspettavo veramente molto – c‘è qualcosa che non mi convince del tutto perché ho come l’impressione che Richard Yates abbia curato più la forma che il contenuto –ovviamente i racconti sono assolutamente perfetti e ben strutturati sotto ogni punto di vista – e abbia caricato i personaggi di troppa crudeltà e di malessere – attribuendo alle loro anime fardelli troppo pesanti da sostenere – e allo stesso tempo li abbia privati di troppa umanità, rendendoli poco sopportabili agli occhi del lettore che durante la lettura, potrebbe avvertire un costante desiderio di fuga e di dissociazione.
Quello che però appare chiaro sin da subito è che già da questi primissimi racconti traspare tutto ciò che renderà in seguito grande e immensa la scrittura di Richard Yates ovvero l’ossessione verso le storie accidentali, disturbanti e popolate da perdenti cronici nonché l’onestà brutale e cinica della sua immensa penna.
Undici Solitudini, Richard Yates, Minimum Fax 2006, pp.257. Traduzione Maria Lucioni.
In effetti anch’io mi aspettavo di più. Mi sono piaciuti, ma non quanto Revolutionary road. Non so dirti perché. Questo è l’altro libro che sto rileggendo insieme a Cattedrale.
Nemmeno io saprei dire il perché non mi sia piaciuto, posso solo dire di averlo iniziato con una foga e un entusiasmo pazzesco che man mano è sciamato!
Ovviamente stiamo parlando sempre di letteratura di altissimo livello, questo vorrei che fosse chiaro!
Revolutonary Road non l’ho ancora letto perché voglio lasciarlo per ultimo, fra quelli però da me letti mi è piaciuto molto Disturbo della quiete pubblica!
Attendo con ansia le tue recensioni sia di Undici Solitudini che di Cattedrale!