Intervista a Marina Pirulli: la traduttrice che ha dato una nuova voce a Sherwood Anderson
Marina Pirulli è la traduttrice che ha dato una nuova voce a Sherwood Anderson, traducendo un romanzo complesso e articolato come Riso nero, pubblicato per la prima volta nel 1915 e considerato il vero capolavoro dell’autore nordamericano nato in Ohio e maestro del racconto breve.
L’unica traduzione italiana di questo romanzo era del lontano 1932, ad opera di Cesare Pavese e quasi certamente, aver riportato alla luce un romanzo ormai quasi dimenticato come Riso nero, dev’essere stata una bella scommessa sia per Marina Pirulli e sia per la Cliquot Edizioni, giovane casa editrice romana che nel corso dell’anno riserverà delle belle sorprese ai suoi lettori.
Conosciamo meglio Marina Pirulli, il suo rapporto con la traduzione e il suo lavoro di traduttrice, soprattutto alle prese con uno dei mostri sacri della narrativa mondiale e del calibro di Sherwood Anderson.
– Quando e come inizia la tua carriera di traduttrice?
Nel 2005, appena uscita dall’università, avevo tanti dubbi e una sola certezza: la traduzione era il mio destino, la mia passione e sarebbe diventata anche il mio lavoro. Non sapendo esattamente da che parte cominciare, sono approdata a Milano per frequentare un master in traduzione medica e farmacologica: tutti mi consigliavano di puntare su quel settore per avere sbocchi lavorativi più sicuri. Le cose, invece, sono andate diversamente: mentre ero a Milano, mi è giunta notizia che stava per iniziare un corso di specializzazione in traduzione letteraria. Mi sono iscritta senza esitare, perché tradurre letteratura era fin dall’inizio il mio vero sogno nel cassetto, e ho frequentato tutte le lezioni parallelamente al master. Quel corso è stato fondamentale: non solo ho imparato e affinato i ferri del mestiere (grazie soprattutto agli insegnamenti del bravissimo Michele Piumini), ma ho anche avuto la conferma definitiva che quella era la mia strada e la mia vocazione. Subito dopo il corso, sono stata messa in contatto con la redazione di una grande casa editrice, ho superato la prova di traduzione e agli inizi del 2007 (esattamente 10 anni fa!), mentre ero a Bruxelles per uno stage, ho ricevuto la grande notizia: mi era stata assegnata la traduzione del mio primo libro! Si trattava di “Tre madri” di Sonia Lambert (Mondadori), un romanzo che mi è rimasto nel cuore, non solo perché ha dato inizio alla mia carriera ma anche perché è davvero bellissimo.
– Ho sempre avuto la convinzione che tradurre è un po’ come scrivere un testo da zero ed è dunque un’operazione piuttosto insidiosa e piena di sorprese, cosa ami del tuo lavoro e cosa invece detesti?
Insidiosa e piena di sorprese lo è senza dubbio! In effetti noi traduttori dobbiamo essere anche un po’ scrittori, padroneggiare la lingua in tutte le sue sfumature, non lasciare nulla al caso ma sapere anche, quando serve, lavorare di fantasia. Al tempo stesso, però, si può dire che la traduzione lascia meno libertà rispetto allo scrivere un testo da zero: non siamo noi a scegliere il tipo di linguaggio e lo stile da utilizzare, né possiamo dare al testo la struttura e l’impostazione che preferiamo. Dobbiamo piuttosto “spogliarci” della nostra identità e immedesimarci con le scelte dell’autore, impadronirci delle sue modalità espressive e riprodurle in un altro contesto linguistico e culturale: in fin dei conti, può forse essere considerata una via di mezzo tra il lavoro di uno scrittore e quello di un attore o doppiatore.
Questo è sicuramente uno degli aspetti che amo della traduzione, ma non è l’unico: adoro lavorare con le frasi, “scervellarmi” per trovare la parola più adatta o la soluzione migliore a un enigma intraducibile, e poi c’è un altro aspetto che amo moltissimo: libro dopo libro, tradurre permette di espandere costantemente le nostre conoscenze e scoprire un’infinità di cose in ambiti e settori di cui magari, fino a poco prima, non conoscevamo nemmeno l’esistenza. Cosa invece detesto? Il fatto che il nostro lavoro, almeno in Italia, non sia adeguatamente riconosciuto nella sua importanza. Molti lettori, e – ahimè – anche molti giornalisti e recensori guardano solo al nome dell’autore in copertina, senza rendersi pienamente conto che le parole racchiuse in quelle pagine, dalla prima all’ultima, sono il frutto del lavoro di un’altra persona che non viene quasi mai neanche nominata.
– Solitamente come imposti il tuo lavoro di traduzione: leggi tutto il testo prima di iniziare a tradurre o procedi un capitolo per volta?
Dipende dal tipo di testo che ho davanti. Generalmente procedo capitolo per capitolo, o anche paragrafo per paragrafo, e faccio una prima stesura annotando a margine tutti gli eventuali dubbi. Dopo aver finito, riprendo il libro dall’inizio e opero tutte le modifiche necessarie a migliorare la versione finale. Questo modo di procedere mi dà il vantaggio di lavorare da un doppio punto di vista: quello del lettore (che legge il libro pagina per pagina, senza sapere cosa lo aspetta nei capitoli successivi) e quello dell’autore (che lavora sul testo avendo già in mente la struttura e i contenuti dell’intero libro). In certi casi particolari, invece, mi è capitato di dover leggere il testo per intero prima di cominciare la traduzione: per esempio, quando lavoravo con i romanzi rosa mi veniva spesso richiesto di “tagliare” una certa percentuale dell’opera originale, perché “troppo lunga”, e per far ciò dovevo necessariamente aver letto prima tutto il libro.
– Com’è stato tradurre “Riso nero” di Sherwood Anderson?
“Riso nero” è stato probabilmente il più impegnativo tra i libri che ho tradotto finora, per tutta una serie di ragioni: le difficoltà intrinseche di un testo risalente a cent’anni fa, il suo status di classico della letteratura americana, l’importanza e il prestigio dell’autore, e infine – ma non ultimo – il fatto che il romanzo era già stato tradotto da Cesare Pavese nel 1932. Un predecessore illustre, dunque, con cui confrontarmi; un nome ingombrante che con la sua presenza mi ha motivata a dare il meglio di me, anche se all’inizio mi incuteva un po’ di soggezione! Tuttavia, non ho mai guardato la traduzione di Pavese mentre lavoravo al libro, e questo mi ha permesso di produrre un lavoro totalmente “mio”, senza essere influenzata dalle scelte di un altro traduttore. Del resto, come ho scoperto in seguito, la versione di Pavese era ormai datata, conteneva inevitabili inesattezze (a quei tempi non c’era Internet!) e al giorno d’oggi risulta pressoché illeggibile…!
– C’è un libro in particolare che avresti voluto tradurre o che ti piacerebbe tradurre?
Una sera di nove anni fa, all’aeroporto di Madrid, fu annunciato un ritardo di oltre due ore per il volo che doveva riportarmi in Italia. Per ingannare l’attesa, entrai in una libreria e comprai il primo volume che attirò il mio sguardo. Era un romanzo breve di uno sconosciuto autore spagnolo, dal titolo accattivante e di agile struttura. Poi in realtà l’ho letto solo dopo qualche anno (in aeroporto alla fine ho preferito chiacchierare con gli altri viaggiatori in attesa), ma quel libro mi ha davvero conquistata, tanto che mi è subito venuto il desiderio di poterlo tradurre in italiano. L’ho anche proposto a un paio di editori, ma finora in Italia nessuno l’ha preso in considerazione, nonostante il romanzo sia già stato tradotto in diversi altri Paesi e abbia dato origine a una trilogia di grande successo. In quest’ultimo periodo, presa da altri impegni, ho rimesso la proposta nel cassetto, ma chissà…
– Come vedi oggi il mondo della traduzione e che consiglio daresti a chi vuole intraprendere questo percorso?
Ho sempre avuto la sensazione che questo sia un settore in cui vige l’anarchia: non ci sono regole chiare, non esistono standard qualitativi e sulle tariffe ognuno fa un po’ come crede. Com’è noto, nel campo della traduzione editoriale l’offerta supera di gran lunga la domanda: ci sono moltissimi aspiranti traduttori, ma non è facile entrare nel mercato perché ogni casa editrice di solito ha già i propri collaboratori abituali a cui far riferimento. Alcuni editori purtroppo, per risparmiare, affidano le traduzioni a persone inesperte e a traduttori “improvvisati”, col risultato che i loro libri sono spesso di bassa qualità e decisamente poco piacevoli da leggere.
A chi vuole intraprendere questa strada consiglierei innanzitutto di “mettersi alla prova”: per essere un buon traduttore non basta conoscere alla perfezione una lingua straniera, né saper scrivere bene nella propria lingua (anche se questi sono due requisiti indispensabili). Bisogna avere orecchio, sensibilità, tanta pazienza, fantasia e creatività, metodicità e precisione, umiltà, moltissima passione e anche attitudine al lavoro “solitario”. Per capire con certezza se si possiedono queste caratteristiche, è utile frequentare un buon corso di traduzione: ne esistono moltissimi ormai, sia con lezioni in aula che online, ma sceglierne uno veramente valido può fare la differenza (come è successo a me). Se poi ci si rende conto di avere la “stoffa” e la passione, il mio consiglio è di crederci fino in fondo, non arrendersi alle prime difficoltà e non dare ascolto a chi tenta di scoraggiarci: se io avessi dato retta a chi voleva dissuadermi perché “è un lavoro poco sicuro, mal pagato e difficilmente accessibile” (il che, del resto, è vero) adesso non sarei qui a parlarne.
– Quali saranno i tuoi progetti futuri? Stai già lavorando a qualche nuova traduzione?
Dopo “Riso nero”, ho accantonato temporaneamente la narrativa per dedicarmi un po’ di più alla saggistica: ho avuto la fortuna di iniziare a collaborare con una piccola casa editrice, Spazio Interiore, che si occupa di tematiche a me molto care (spiritualità, crescita personale, evoluzione dell’essere umano, benessere e felicità), argomenti di cui io stessa mi occupo in prima persona fra una traduzione e l’altra. Tra poche settimane uscirà il primo libro che ho tradotto per loro: una preziosissima guida alla sessualità femminile che, in un linguaggio semplice e brioso, offre a tutte le donne la possibilità di conoscere meglio se stesse (e a tutti gli uomini la possibilità di capire meglio le donne!). In questo momento sto lavorando a due nuovi libri, che verranno pubblicati quest’anno dalla stessa casa editrice, e parallelamente porto avanti la mia collaborazione con Cliquot – l’editore di “Riso nero” – che sforna sempre libri di altissimo livello, curati in ogni dettaglio. Mi piace lavorare con questi editori “piccoli”, perché spesso – non sempre, ma spesso! – ci trovo, rispetto ai colossi dell’editoria, una maggiore attenzione alla qualità dei testi e un rapporto lavorativo più fruttuoso e appagante anche a livello personale.
Ma che bella intervista! Mi piace molto. E “Riso nero” è lì che attende…
Grazie mille! Vai vai, buttati a capofitto su “Riso nero” perché ne vale davvero la pena, soprattutto se non hai ancora letto nulla di Sherwood Anderson. 😀