Intervista a Fabio Cremonesi: il traduttore italiano di Kent Haruf
Fabio Cremonesi è il traduttore ufficiale italiano di Kent Haruf che è diventato, nel giro di pochissimi anni, un autore di culto, apprezzato e molto amato dal pubblico, capace di scalare in poche settimane le classifiche di vendita e contemporaneamente regalare emozioni uniche e semplici, che si imprimono alla perfezione nella mente e nel cuore del lettore.
Attualmente è in libreria la sua ultima fatica letteraria intitolata Le nostre anime di notte e terminata proprio poco prima della sua morte, avvenuta nel 2014, e liberamente ispirata al suo matrimonio con Cathy Haruf. Un libro molto toccante e commovente, pubblicato sempre da NN Editore, scritto con una sorta di urgenza dettata dall’imperversare della malattia e dalla voglia di non tralasciare nulla, insomma due elementi che si denotano perfettamente dalle pagine del libro. Allo stesso tempo però, Kent Haruf nonostante tutto, non sacrifica mai la sua scrittura e non la rende mai priva di quell’amore e di quel senso di calore che lo hanno reso celebre e tanto amato dal pubblico.
Scambiare quattro chiacchiere con Fabio Cremonesi, il suo traduttore italiano, che si considera una sorta di artigiano delle parole che “trasforma” qualcosa di già esistente è stata un’esperienza davvero eccezionale e di seguito ci spiega com’è diventato traduttore, com’è stato tradurre Kent Haruf e soprattutto ci anticipa alcune interessanti traduzioni di prossima uscite sia per NN Editore e sia per altri editori.
- Quando e come inizia la tua carriera di traduttore?
Una decina d’anni fa lavoravo per una piccola casa editrice indipendente specializzata in ispanistica. Non ho mai avuto l’ambizione di scrivere, ma l’idea di trasportare in italiano le storie di qualcun altro mi sembrava molto interessante, così mi sono messo alla prova: ho iniziato rivedendo traduzioni altrui, poi, quando mi sono sentito più sicuro di me, ho affrontato i miei primi romanzi in castigliano, una manciata di autori di qualità, ma non eccessivamente complessi. Poi un’amica mi ha proposto quattro novelle di un’autrice austriaca, Christine Lavant, piuttosto nota come poetessa nei paesi di lingua tedesca. Un libro bellissimo, molto lontano dalle cose che leggo di solito ed estremamente complesso. Con l’inglese invece ho iniziato con articoli di giornale e diverse “marchette”, prima di approdare a Kent Haruf. Insomma, ci ho preso talmente gusto che da qualche anno ho lasciato la casa editrice e mi sono dedicato alla traduzione a tempo pieno.
- Ho sempre avuto la convinzione che tradurre è un po’ come scrivere un testo da zero ed è dunque un’ operazione piuttosto insidiosa e piena di sorprese, cosa ami del tuo lavoro e cosa invece detesti?
Sinceramente non direi che tradurre sia un po’ come scrivere un testo da zero: secondo me uno scrittore è un artista, uno che crea qualcosa dal nulla, mentre un traduttore è un artigiano, il suo lavoro consiste nel trasformare qualcosa che già esiste. Sulle insidie e le sorprese invece sono pienamente d’accordo: sono precisamente la cosa che amo del mio lavoro, insieme alla possibilità di lavorare ovunque mi trovi, senza essere legato a un luogo in particolare. Un’altra cosa che mi piace molto è che per una persona pedante come me, tradurre costituisce una sorta di valvola di sfogo che soddisfa il mio bisogno di ordine e precisione: una volta spento il pc, mi risulta più semplice tollerare o addirittura apprezzare la confusione nella mia testa e nel mondo. Cosa detesto del mio lavoro? Il mio è un lavoro molto solitario, il che di per sé non mi spiace affatto. Però alla fine di una giornata di lavoro ho un bisogno fisico di uscire di casa e vedere gente: ecco, il brutto del mio lavoro è che mi impedisce di passare una serata in casa a leggere un libro o anche a non fare nulla.
- Solitamente come imposti il tuo lavoro di traduzione: leggi tutto il testo prima di iniziare a tradurre o procedi un capitolo per volta?
La cosa migliore è certamente leggere tutto prima di iniziare, se non altro perché ti risparmia delle notevoli perdite di tempo (per esempio capita spesso che un termine torni più volte in un testo e acquisisca il suo pieno significato soltanto nel corso del libro: scoprirlo quando sei già a pagina duecento ti costringe a rivedere un sacco di scelte effettuate in precedenza). Confesso però di non farlo sempre: se un libro non mi attira particolarmente, preferisco sperare che ci sia qualche sorpresa che mantenga viva la mia attenzione durante la traduzione.
- Com’è stato tradurre le opere di Kent Haruf?
Gratificante, innanzi tutto. I lettori lo amano e un po’ del loro affetto si riflette anche su di me in varie forme: mail, presenza massiccia e calorosa alle presentazioni, senso di comunità che si percepisce in rete, inviti a prendere la parola. Quest’ultimo punto è il più complicato: in generale parto dal presupposto che il traduttore migliore sia quello muto, quello che lascia parlare l’autore senza far sentire la propria voce; nel caso di Kent Haruf però, proprio per questo senso di comunità che si è creato, mi sembrerebbe davvero antipatico restare in silenzio quando mi viene richiesto di intervenire. E poi, oltre alla gratificazione, c’è un certo senso di intimità: pur non avendolo mai conosciuto, è la persona con cui ho trascorso più tempo negli ultimi due anni. Insomma, un incontro davvero significativo, sia da un punto di vista professionale, sia come lettore.
- C’è un libro o un personaggio creato da Kent Haruf a cui sei particolarmente affezionato?
Detto che considero l’opera di Haruf un corpus piuttosto compatto (la Trilogia non è mai stata concepita come trilogia, lo è diventata da sola!), il libro a cui sono più legato è Benedizione, lo considero un romanzo a suo modo perfetto: ha tutto quello che serve, non una parola di più, non una parola di meno. C’è anche un motivo personale per questa mia preferenza: Benedizione mi ha permesso di lavorare fianco a fianco e conoscere meglio Gaia Mazzolini, una delle fondatrici di NN Editore, una persona molto speciale che ci ha lasciato pochi mesi dopo.
Un personaggio? Be’, sarebbe facile rispondere: Holt. Ma mi pare più stimolante pensare a un altro protagonista assoluto, anche se meno evidente: il desiderio. Le donne sembrano in grado di gestirlo piuttosto bene (ma quelle che non ci riescono finiscono per rinchiudersi in una stanza buia, come la moglie di Tom Guthrie in Canto della pianura, o fuggire, come la madre di Dena ed Emma, le ragazzine di Crepuscolo). Gli uomini invece sbagliano tutto (come il reverendo Rob Lyle in Benedizione, Hoyt Raines in Crepuscolo oppure Gene, il figlio di Addie in Le nostre anime di notte) e a volte il desiderio se lo ritrovano davanti in punto di morte in una sorta di nemesi, come il Commendatore nel Don Giovanni (penso a Dad Lewis in Benedizione). Ci sono anche quelli che prima o poi imparano a fare i conti con il desiderio – Tom Guthrie, Raymond McPheron, Louis Waters – ma temo siano una ristretta minoranza.
- C’è un libro in particolare che avresti voluto tradurre o che ti piacerebbe tradurre?
Qualche estate fa ho letto I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, l’ho letto in inglese e per tutto il tempo ho continuato a pensare: da grande vorrei arrivare a tradurre un libro così ricco e complesso. Va da sé che oggi non sarei assolutamente pronto a farlo. Non sono abbastanza bravo e per giunta sono troppo pigro per un lavoro del genere.
- Come vedi oggi il mondo della traduzione e che consiglio daresti a chi vuole intraprendere questo percorso?
Direi che è un ottimo momento: il lavoro del traduttore non è mai stato così valorizzato e riconosciuto come negli ultimi anni, grazie soprattutto alla costante attività di sensibilizzazione del pubblico generosamente portata avanti da molti colleghi (in primis Ilide Carmignani) ed editori.
Un consiglio per chi vuole iniziare? Leggere tanto e leggere di tutto, anche l’etichetta dell’acqua minerale, se siete in Belgio o in Sudtirolo o in qualunque altro posto bilingue. E poi non abbiate fretta di tradurre, iniziate rivedendo traduzioni di altri: persino Giotto è partito con la O e non con la Cappella degli Scrovegni, figuriamoci noi, che siamo artigiani e non artisti!
Ah, un altro consiglio. Cercate di nascere benestanti o di fare un buon matrimonio: questo non è il mestiere più redditizio del mondo…
- Quali saranno i tuoi progetti futuri? Stai già lavorando a qualche nuova traduzione?
Sono in uscita due libri a cui sono tengo molto: un viaggio letterario in Galizia e Bucovina scritto dall’austriaco Martin Pollack. Uscirà per Keller, un editore che ha saputo conquistarsi un posto speciale nel cuore di molti lettori e, cosa ancora più difficile, sugli scaffali di molte librerie. E poi Mariana Enriquez, un’argentina che i lettori italiani più attenti hanno già conosciuto grazie al fiuto di Caravan Edizioni e che a questo giro esce per Marsilio. Sono storie di fantasmi esattamente come le intendeva Henry James: ossessioni che acquisiscono una fisicità inesorabile. Al momento sto lavorando su un’autrice davvero interessante, Jenny Diski, una sorta di figlia adottiva di Doris Lessing, dotata di una consapevolezza e di una lucidità che ricordano Susan Sontag. Uscirà per NN in settembre.
Incipit della traduzione di Le Nostre Anime di Notte.
“Poi un giorno Addie telefonò a Louis….”. Non gli telefonò , She called on Louis, lo andò a trovare, per chi conosce l’inglese. Come è comunque evidente dal paragrafo che segue.
Peccato, proprio la prima riga….
Ciao, lo stai leggendo/l’hai letto in lingua originale? 🙂